lunedì 22 settembre 2014

Potenza e pedanteria del pensiero digitale, 1

Piccola premessa, a chiarire un po’ di equivoci che girano.
Intanto, digitale significa “numerico”. Deriva dall’inglese digit (cifra, numero), che a sua volta deriva dal latino digitus (dito, cioè il primo “attrezzo” usato dall’uomo per contare). Nella lingua italiana, usiamo la parola “digitale” anche derivandola direttamente dal latino, quando parliamo per es. di “impronte digitali” (delle dita).

In questi anni, dato che gli aggeggi tecnologici di cui ci riempiamo la vita hanno un cuore digitale (numerico),  c’è chi ha ipotizzato che le generazioni umane recenti stiano sviluppando una sorta di “pensiero digitale”, contrapposto al tradizionale pensiero analogico degli umani.
In realtà, osservando la facilità con cui non solo generalmente i bambini – che con i dispositivi digitali ci nascono - ma anche moltissimi adulti e perfino anziani che vi si accostano per la prima volta, si destreggiano con gli aggeggi più recenti, non è difficile capire come certi dispositivi digitali dentro (computer, telefonini e via dicendo) siano diventati popolari e accessibili a tutti nel momento in cui sempre più hanno assunto una interfaccia utente analogica (il mouse che sullo schermo simula la scrivania, le dita che direttamente toccano “disegnini” sullo schermo, o stringono e allargano un’immagine).
Vale a dire, l’eventuale migrazione degli umani verso un “pensiero digitale”, che qualcuno ipotizzava nei primi anni Ottanta del secolo scorso, quando i computer si programmavano da tastiera con comandi e istruzioni pedanti ed estremamente precisi e si pensava che il “futuro” fosse il linguaggio BASIC, è stata poi aggirata costruendo macchine digitali in realtà sempre più vicine, nel funzionamento, all’approccio analogico degli utenti umani.

Questo, se da una parte (ed è un vantaggio) consente a chiunque di utilizzare con profitto gli strumenti tecnologici di oggi anche senza avere una vera competenza tecnologica, dall’altra (e può essere un problema), non sollecita quel confronto “in sintonia” con le macchine che, al tempo dei computer da programmare, aveva fatto scoprire a molti ragazzini di avere una mente adatta a misurarsi con il funzionamento profondo delle macchine stesse o, più umilmente, faceva almeno intuire a tutti il lavoro umano e il tipo di “pensiero” che sta dietro ad applicazioni facili e potenti e a videogiochi mirabolanti.
In altre parole – questa ovviamente è una mia opinione, ma si basa su un’esperienza di decenni sul campo, cioè nelle scuole con i ragazzi veri, molto vasta -  non solo diventa più difficile, dato l’uso generalizzato di applicazioni già pronte e sempre più specifiche, che non comportano alcuna ricerca di tipo informatico, che nascano ed emergano naturalmente dal gruppo nuovi Paul Allen, Steve Wozniak, Richard Stallman, Linus Torvalds, ma rischiamo seriamente di perdere alcuni elementi basilari di alfabetizzazione, rispetto a linguaggi che si sono sviluppati molto in fretta, e di cui non sono stati ancora individuati con precisione gli elementi di base e le “grammatiche” che sarebbe utile fossero conosciuti da tutti.

La frenesia da digitalizzazione oggi è di moda, ma spesso si traduce solo in nuova inutile burocrazia digitale, con una pericolosa sottovalutazione dell’approccio estremamente superficiale ai veri “alfabeti” visivi e multimediali che stanno globalizzando la cultura del pianeta e il cui utilizzo è oggi indirizzato, più che dai sistemi educativi, sostanzialmente dal marketing.
Così, "saper usare” un tablet o una LIM, seguendo l’istinto o le istruzioni (senza magari avere mai imperato a tagliare una fotografia!), non garantisce affatto consapevolezza “informatica”, come non la garantiscono le “patenti di computer” basate su un uso prevalentemente da ufficio che se ne faceva nei primi anni Ottanta e che qualcuno, a mio parere oltre ogni evidenza, ancora considera “di base”. Mentre può essere un buon segno che nella scuola italiana si stia tornando a parlare di informatica come programmazione.

Programmazione: cioè imparare fin da piccoli che siamo noi umani a istruire le macchine su quello che devono fare, e provare a vedere che cosa succede quando diamo queste istruzioni, come risponde la macchina, se sono giuste o sbagliate.
Posto che il funzionamento delle macchine di oggi - non di quelle di ieri e forse non di quelle di domani - cioè quello che potremmo chiamare “pensiero digitale” è il linguaggio macchina, che si esprime in codice binario o esadecimale ed è conosciuto bene solo da una piccola parte degli informatici di professione, esistono tanti linguaggi cosiddetti di alto livello che consentono di istruire le macchine secondo modalità molto più simili a quelle di noi umani, e alcuni sono perfettamente accessibili anche ai bambini.

Sto montando un video che ho girato con bambini della scuola primaria che, durante il passato anno scolastico,  guidati dal prof. Giovanni Lariccia, hanno lavorato con il software Iplozero, una versione del linguaggio di programmazione LOGO, su cui qui ho già scritto alcuni articoli. E, oltre gli stereotipi con cui spesso vengono descritti, ho visto bambini veri comportarsi da veri protagonisti, come succede sempre quando, nella pratica educativa, si “resettano” i luoghi comuni e le routine abituali e si fa leva sulla curiosità, la voglia di conoscere, di provare, capire tutti insieme. Succede con i computer come con le videocamere, con gli insetti del cortile come con i giochi corporei di espressione teatrale...


Continua…

martedì 9 settembre 2014

La meravigliosa adunanza presso l’edera in fiore

In questi giorni sto finalmente mettendo ordine nelle “gallerie” del Museo Virtuale dei Piccoli Animali, convertendole anche da Flash a Java. Questo rende i contenuti più accessibili, anche dai tablet che con Flash non si ritrovano più!
Una delle ragioni principali per cui l’idea del “museo” nel tempo è piaciuta (a proposito, siamo sempre in cerca di collaborazioni e sponsor!) e ha trovato spazio in pubblicazioni anche internazionali e di prestigio, credo stia nel fatto che mette d’accordo in modo semplice e immediato la natura e la tecnologia.
Si cercano insetti e ragni nel cortile della scuola (che dopo per i bambini non sarà più lo stesso!), li si “cattura” con fotografie e video (anche chi non lo ha mai fatto, ottiene spesso risultati sorprendenti!), li si osserva nello splendore del macro e poi si condividono i documenti in rete. Senza contare l’entusiasmo, la sorpresa e la meraviglia, l’interesse duraturo dei bambini, che poi ricercano, disegnano, raccontano, e spesso insieme convergono verso conclusioni scientificamente ineccepibili (“le api succhiano e le vespe tagliano!” Parola dei bambini di prima elementare, e degli scienziati!)

Piccoli animali si trovano dappertutto, ma ci sono ambienti dove più volentieri  si danno convegno. Se noi li ci appostiamo e osserviamo, sarà meglio che leggere un libro, che navigare su internet: arriveranno in tanti a incontrarci, stupirci, meravigliarci, veri, vivi e presenti. E l’occhio, l’orecchio a volte, la videocamera o la macchina fotografica con l’ obiettivo macro (cose non più da professionisti, ma da bambini ormai, da parecchio tempo e anzi, a volte meno ci si “aggiorna” seguendo i capricci del mercato, e meglio è!) moltiplicheranno la nostra capacità di vedere e di ricordare.
Così, per esempio, molti insetti diversi visitano i fiori di lavanda, così come ricca e differenziata è la folla che si dà convegno sulle ombrellifere.
Nella mia esperienza empirica, un ambiente che favorisce un’osservazione comoda e ricca è l’edera in fiore. Sta abbarbicata in quantità sul muro o sul cancello, non occorre neanche muoversi e spostarsi, ma basta avere pazienza e aspettare. A parte gli ospiti “fissi”, come ragni e cimici, è un continuo volo di api e vespe di ogni foggia e dimensione, e mosche tante e diverse da non credere. Arrivano, si spostano velocemente, non sono sempre agevoli da fotografare, ma facilmente ritorneranno.

Con le macchine digitali conviene scattare tanto, tantissimo. Non costa niente e non solo avremo più possibilità di ottenere immagini soddisfacenti, ma spesso ci capiterà di scoprire, rivedendo in grande, particolari che proprio non ci aspettavamo. Come gli occhi bianchi punteggiati di rosso dell’ Eristalinus sepulchralis (e chi se l’aspettava? E che razza di nome gli hanno dato!)

Il calabrone che si “pettina” era su un’altra edera alcuni anni fa, mentre ieri ho cercato di prenderne uno in volo, e anche se mossa l’immagine è suggestiva. Davanti all’edera in fiore, il suo volo si annuncia e si sente, si impone con un forte ronzio. Ma quasi altrettanto rumore fa anche la grossa mosca che lo imita, la Volucella zonaria!